Il dilemma tra natura e cultura

Negli ultimi decenni, a seguito della caduta dei grandi sistemi teorici che hanno animato il dibattito sociale nel corso del XX secolo, si stanno affacciando tanti piccoli sistemi dottrinari, di cui molti parecchio effimeri e spesso superficiali, che però possono ricondursi a due linee di tendenza generale. Secondo la prima, più “antica” ma ora più in auge, si intende l’esistenza di un modo di essere intrinseco e precostituito degli esseri umani. Col termine “natura” infatti i sostenitori di una visione etologica dell’Umanità intendono appunto qualcosa di “sacro” che non può essere “violato”. Ogni dottrina che si prefigge di costruire un mondo “migliore” viene vista come una forzatura alla natura umana e quindi una violenza agli esseri umani. L’unica spinta atta al cambiamento di tale natura è data dall’evoluzione, concepita in genere come qualcosa che opera in tempi non brevi.
La seconda è invece più recente e ha costituito spesso la base teorica di molte dottrine socio-politiche volte alla costruzione di una società perfettibile. È questa la visione sociologica dell’Umanità. Secondo tale visione gli esseri umani sono quel che la società li fa essere, come li forma. Pertanto è pienamente legittimo tentare di migliorare le persone perché è così che si formano gli esseri umani e il tirare in ballo la natura costituisce un inganno volto a far rinunciare al desiderio di cambiamento in meglio ed accettare l’ordine costituito. Le resistenze opposte a vari movimenti, laddove questi non hanno visto realizzati i propri scopi dichiarati, sarebbero pertanto di natura sociale, ossia tutto un insieme di spinte socio-economiche avrebbero opposto un freno e un dirottamento dalle intenzioni reali dei vari movimenti di cambiamento, impedendo la loro realizzazione e anzi distorcendoli e utilizzandoli ai propri fini di conservazione.
Non raramente l’opinione pubblica tende invece a ritenere le teorie naturaliste più moderne non solo perché oggi più in auge, ma anche per il semplice fatto che si baserebbero sui più recenti studi di genetica e neurologia, branche scientifiche più giovani o con strumenti tecnologici più avanzati e raffinati, nonché con risultati sperimentali che spesso toccano il cuore stesso della vita o del cervello e che pertanto hanno un impatto mediatico molto più incisivo rispetto alla più antica e “moderata” osservazione sociale. In realtà le concezioni teoretiche, ma direi anche filosofiche, che sono alla base delle tesi sociali sono mediamente più recenti rispetto a quelle su cui si fondano naturali.
Le due tesi fanno capo a diverse scuole e confluiscono in buona parte nell’antropologia culturale per la tesi sociologica e nell’antropologia evolutiva per la tesi naturalista. Inoltre la tesi naturalista si rifà molto all’etologia austriaca di Lorenz. Ma qui non mi interessa esporre gli aspetti scientifici, anche perché non ne sarei all’altezza, ma i risvolti politici, etici e sociali che queste due interpretazioni del mondo umano comportano.
Premetto che oltre a essere ignorante sono anche parziale. Infatti non vi sfuggirà che personalmente propendo più per il sistema sociologista che non per quello naturalista, seppure non escludo affatto aprioristicamente quest’ultimo e anzi ne accolgo molti elementi. Ma la mia critica, oltre a essere seppur lunga molto semplicistica, è più dura verso tale modello che non verso quello a me più prediletto.

Sociologismo contro naturalismo
Quindi facciamo il punto tra i due… punti di vista. Vediamo che entrambi in un certo modo sacralizzano un aspetto e ne denigrano un altro. Quello evoluzionistico-etologico, forse neodarwiniano, vede in una cosa indefinita chiamata “natura” qualcosa di intoccabile e immutabile, che non può essere forzato, pena il disastro. Questa concezione fa leva sul fatto che oggi i grandi sistemi teorici che si sono prefissati di costruire un modello sociale migliore non hanno raggiunto gli scopi che si erano prefissati, adducendo che questi erano contrari alla natura umana.
La visione del processo di funzionamento della società è opposta nei due “massimi sistemi”. Infatti il “sistema” naturalistico afferma che è la natura umana dei vari individui a costruire la società, che in fin dei conti rispecchia la natura degli esseri umani. Inoltre tutta la storia umana è una sorta di “eterno ritorno” in quanto ciò che noi oggi facciamo in chiave moderna, lo facevano anche i nostri antenati in versione più antica. Ma fondamentalmente la società umana non è cambiata nella struttura base. Una visione opposta a quello sociologico che invece distingue l’avvicendarsi nella storia di vari sistemi sociali completamente diversi l’uno dall’altro e con individui che erano diversi da noi uomini moderni. La società quindi si forma su proprie leggi a seconda delle condizioni storiche in cui una comunità umana opera, e gli individui vengono formati da essa. Così per questa visione il progetto è sacro e ogni appello alla natura umana è un tentativo di sabotare il cambiamento sociale.
L’argomentazione a favore di questo punto di vista è che i vari tentativi di cambiare il mondo hanno trovato resistenze sociali che hanno impedito la realizzazione piena degli intenti riformistici o rivoluzionari. Inoltre fanno notare che sono passati pochi decenni di tentativi di cambiamento e che è normale che molti tentativi possano andare in fumo. Fanno spesso altresì notare che non è detto che ciò che è di ordine sociale e culturale debba essere per forza di cose più “malleabile” di ciò che è naturale. Ci sono stereotipi che vengono tramandati e sono molto duri a morire, come possono esservi pulsioni innate facilmente modellabili senza alcun danno di sorta. Molto importante è anche la notazione che i vari tentativi di cambiamento erano isolati e circondati da un mondo che invece andava in controtendenza.

Dialogo tra i due massimi sistemi
Non vado oltre la descrizione di questi sistemi perché non ne ho la competenza e trascenderei in un mero nozionismo. Ma vorrei fare alcune osservazioni personali riguardo tali concezioni:
1. Entrambi risultano parziali e verrebbe banalmente da dire che possono essere veri entrambi. Non che tale osservazione non possa essere vera, ma non dice niente. Personalmente trovo però il sistema naturalistico molto semplicistico e a dire il vero anche un po’ puerile. Aldilà della infantile contestazione di stampo sessantottino, il sistema sociologico è molto più completo e raffinato, nonché più avanzato. Le varie interpretazioni sociologiche riescono a spiegare molti dei fenomeni storici e sociali senza ricorrere al vago concetto di natura umana. Questo mentre invece le concezioni naturalistiche quando trascurano molti aspetti presi in considerazione dalle teorie sociologiche sfociano in una vera e propria opera di superficiale decontestualizzazione che non tiene in debito conto lo sfondo delle condizioni storiche in cui vari eventi e comportamenti umani si sono avverati. La forza principale della prospettiva naturalistica sta nella caduta di quei falsi miti che si fondavano sulla concezione sociologica, prima tra tutti il falso comunismo sovietico. La dissoluzione di questi miti ha fatto ritornare in auge modelli naturalistici che a differenza di quelli ottocenteschi fanno uso di una tecnologia più avanzata con ricerche un po’ aleatorie, per esempio l’utilizzo dell’imaging cerebrale per visualizzare il funzionamento del cervello negli adulti ormai già formati non dice però che tale funzionamento delle varie aree sia per forza un fatto innato. Inoltre bisogna anche tener presente la fase in cui si trova il capitalismo odierno con la possibilità e la necessità di “eternizzarsi”. La spiegazione che si pretende “evoluzionistica” in realtà vorrebbe spiegare l’evoluzione umana senza tener conto dell’evoluzione sociale e delle leggi che regolano questa. Il tutto solo perché i sistemi che si fondavano o pretendevano di fondarsi sulle teorizzazioni sociologiche hanno deluso i più.
2. Dopo queste prime sensazioni vediamo che in fondo questi due modelli non sono poi tanto diversi nella loro struttura. Bisogna dire innanzitutto che anche il modello sociologico ha le sue pecche. Se infatti questo modello spiega spesso molto bene eventi, fenomeni, processi di evoluzione sociale e così via, però manca di spiegare cosa c’è alla base di tutto. Per esempio, perché esistono spinte al cambiamento e spinte alla conservazione? Le spinte al cambiamento possono essere viste come il tentativo di fuoriuscire da uno stato di sofferenza, ma in un mondo migliore anche quelli che in passato erano ricchi e potenti vivrebbero bene come persone comuni rinunciando ai propri trascorsi privilegi. Eppure questi personaggi tendono per lo più a conservare il proprio status e non a cederlo con molta facilità. E non solo loro, anche moltissimi che non godono di una posizione sociale privilegiata tendono a essere non di rado conservatori.
Perché allora i potentati del mondo, ma anche la gran parte del popolo, tende a opporre non poche resistenze al cambiamento? Le teorie sociologiche spesso affermano che comunque sia l’essere umano è fondamentalmente conservatore. Quindi in fin dei conti neanche i sostenitori delle teorie a impronta sociologica escludono che esistano delle spinte ancestrali dovute a una strutturazione naturale dell’essere umano. Cambia però il concetto che si ha di queste pulsioni innate. Per esempio il fatto che gli esseri umani tendano a essere conservatori per natura non dice in che senso lo siano. Ma si evince chiaramente che mentre per i modelli naturalistici la spinta conservatrice è dovuta alla predisposizione a vivere in un certo modo prestabilito, i modelli sociologisti invece propendono per il concetto che le persone semplicemente tendono a conservare il contesto ambientale in cui sono cresciuti.
Ma anche il cambiamento però deve essere possibile. Se l’essere umano è in grado di mutare vuol dire che esistono aspetti della sua natura preposti al cambiamento. La stessa “utopia” se ben guardiamo, la voglia di fantasticare e volere un mondo migliore, armonioso, a “misura d’uomo”, è sempre presente nella storia e denota di far parte di quella strutturazione di base che i naturalisti chiamano “natura umana”.
3. Entrambi i modelli hanno per lo più una loro epoca d’oro di riferimento che rispecchia il modo di vivere tipico della natura umana, vista in modo diverso a seconda del modello prescelto. Quello sociologico si rifà in linea di massima a un “comunismo primitivo” risalente alle tribù di raccoglitori e cacciatori. Quindi in definitiva le teorie sociologiche non è che escludono un contesto sociale tipo che rispecchia la natura umana, ma identificano questo contesto nella tribù di cacciatori e raccoglitori in cui l’Umanità si è evoluta e poi allontanata per varie necessità. E a questa tenderebbe a tornare in una versione però “high tech”.
Diversamente invece le teorie “evoluzionistiche” si suddividono in linea generale in due versioni. Quella più “modernista” lascia intendere che il capitalismo in fin dei conti è la società tipo in cui si esprime pienamente la natura umana, il migliore dei mondi possibili. Anzi il capitalismo è sempre esistito in fondo e sempre esisterà. Questo non lo si dice apertamente, anzi è raro che si faccia ricorso al termine “capitalismo”, ma risulta chiaro dalla lettura che gli evoluzionisti fanno della storia. I comportamenti umani delle società precapitaliste sono visti esattamente come quelli della società capitalista. In realtà è piuttosto aleatorio dire che un dato comportamento possa essere simile o diverso da un altro, quale spirito lo abbia animato e così via. Si gioca sull’equivoco e sul non conosciuto.
La versione più “tradizionalista” delle teorie naturalistiche identifica invece l’epoca d’oro nel feudalesimo o nell’antichità. La Grecia classica, l’Impero Romano o il Sacro Romano Impero sono visti come dei punti di riferimento storici, dei “paradisi” in terra in cui l’armonia regnava sovrana contro il degrado odierno. Degrado spesso addossato alle velleità di cambiamento che fanno per lo più capo alle teorie sociologiche che non hanno tenuto conto della natura umana e contribuendo a creare un contesto storico disarmonico e innaturale come quello consumistico.
A quanto pare quindi entrambi i modelli alla fine non fanno altro che accusarsi vicendevolmente di contrastare il normale svolgimento della natura umana, entrambi però evidenziando, enfatizzando e sostenendo alcuni aspetti di essa e sminuendo, trascurando e contrastandone altri. Sistemi parziali quindi, che non vedono l’Uomo nella sua completezza, nel suo essere tensione, corda tesa tra cambiamento e conservazione, e di cui ogni espressione sociale è al tempo stesso interazione tra contingenze ambientali e istinti primordiali da esse modellati.

Alla base di tutto?
Lasciando perdere le dottrine e le correnti di pensiero su basi di tipo per lo più religioso e/o filosofico, e prendendo in considerazione quelli che assumono a fondamento dei propri principi postulati e teorizzazioni più o meno scientifici o che si pretendono tali, notiamo che la concezione base del naturalismo più diffuso sta nel fatto che l’evoluzione genetica sarebbe molto lenta, mentre quella sociale più rapida. Quindi si verrebbe a costituire una dicotomia tra evoluzione sociale ed evoluzione biologica. Mentre la natura umana rimarrebbe immutata per periodi lunghi, la società cambierebbe di continuo entrando spesso in contrasto con il modo di essere intrinseco degli esseri umani. Molte dottrine socio-politiche che condividono questa visione, propongono pertanto delle misure non per cambiare il mondo, ma anzi per mettere un freno allo sviamento che porterebbe al degrado e al disordine. Ecco che non di rado si affaccia la figura di un ordine morale e naturale con relativi tutori, di un insieme di valori a cui fare riferimento per non andare oltre eventuali misure e ricondurre l’evoluzione sociale nei ranghi della natura umana. Tutto ciò che va oltre è pertanto una violenza contro l’ordine naturale. La politica si trasforma così in un’operazione di gestione del dato e di vincolo all’ordine, nello stabilire il bene e il male e ciò che può essere fatto e ciò che non va fatto.
Questo ordine di pensiero trascura, però, di spiegare come mai gli esseri umani tendano anche a cambiare e a deviare dall’ordine, come mai pare sia più facile trasgredire questo che non rispettarlo. Inoltre molte ricerche, a parte alcune che evidenziano che ciò che si definisce “natura umana” sia qualcosa di molto più ampio, complesso e articolato e soggetto a cambiamenti non poi tanto lenti, attestano che in realtà l’evoluzione genetica sia molto più rapida di quanto si pensi comunemente e che anzi segue quasi a ruota l’evoluzione sociale.
Le argomentazioni naturalistiche sono logiche ma non dimostrate e forse non dimostrabili, o dimostrabili molto difficilmente. Prendiamo per esempio le cure parentali, e di conseguenza, l’istituto del matrimonio che ne esce fuori. Una certa percentuale di uomini è legata a donne che hanno partorito o partoriranno figli non loro. Nel matrimonio una certa percentuale di uomini rischia di allevare figli di altri senza saperlo o fingendo di non sapere, ovvero è un'istituzione mediante la quale un uomo ha una certa percentuale di rischio di allevare un figlio non suo.
Però il matrimonio monogamico consente anche una discreta "distribuzione" di donne a vari uomini, anche uomini comuni. Pertanto è un'istituzione conveniente per gli uomini oppure no? Un interessante articolo sul mito del libero amore è alla pagina http://www.giovannidesio.it/articoli/libero_amore.htm.
Se ben ci pensiamo senza matrimonio e disinteressandosi del fatto di dover educare i propri figli biologici e del fatto che una donna debba avere dei figli biologicamente suoi a cui tramandare ciò che possiede, in fondo un uomo vivrebbe meglio: niente intossicazioni di fegato, scenate di gelosia, delusioni, controlli vari, palpitazioni, etc.
Che vantaggio c'è nell'allevare figli biologicamente propri? Ovvero, che vantaggio c'è nel distinguere i figli propri da quelli degli altri? La società andrebbe avanti pure se tutti i bambini fossero educati da adulti che non per forza devono essere i loro genitori. Che vantaggi evolutivi ha il distinguere i propri figli da quelli degli altri?
Di certo ha dei "costi" conseguenti il controllo, l'accertamento, le varie "ansie" e roba del genere, ma per essersi affermato vuol dire che ha dei vantaggi che superano questi "costi".
E poi come si è affermato? Nelle strutture sociali più antiche in cui ci siamo evoluti, quale è la tribù, tutti i compiti attinenti l'educazione potevano benissimo essere svolti dalla tribù stessa. E forse ciò accadeva pure in vario modo. Però poi a detta di molti, con la proprietà privata sarebbe nata la famiglia e il diritto ereditario per garantire al maschio di tramandare le sue proprietà ai propri figli. Si, va bene, però il fatto che il maschio abbia l'esigenza di tramandare le sue proprietà ai propri figli presuppone l'esistenza di questa esigenza o se vogliamo di questo "istinto", altrimenti il diritto ereditario non sarebbe nato.
Ma da dove proviene questo "istinto"? E qual è il motivo della sua esistenza?
Datosi che il legame monogamico e le cure parentali comportano di certo dei costi, per essersi affermate vuol dire che devono comportare anche dei vantaggi che ripagano tali costi. Ma il tutto non è detto che debba per forza di cose essere di mera natura biologico-evolutiva.
Nel suo libro "Il gene egoista", Richard Dawkins espone la tesi che l'evoluzione non è di specie ma dell'individuo all'interno della specie. Cioè tutto quello che un individuo fa non è per la sopravvivenza della specie ma per la sopravvivenza dei suoi geni, ossia dei propri figli e parenti a discapito degli altri non parenti a lui.
Ma nonostante questo succede che spesso un individuo si comporta in modo "cooperativo" e non "competitivo" con altre persone non parenti all'individuo, ma solo se la cosa da un vantaggio all'individuo stesso, la cosiddetta strategia "tit for tat", ossia io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me ed alla fine abbiamo un vantaggio entrambi. Si fa un favore agli altri solo se è utile a se stessi.
Da questo punto di vista un uomo che fa crescere un figlio usando le risorse di un altro uomo ha un vantaggio enorme, chi fa crescere un figlio non suo dedicandogli risorse ha uno svantaggio enorme.
Ok, ottimo! Mettiamo però due tribù, una in cui i bambini sono allevati dagli adulti senza che i genitori si interessino di chi siano i loro figli e un'altra in cui i genitori ci tengono a distinguere i propri figli dagli altri bambini ed occuparsi più direttamente della loro educazione. Ora quale delle due tribù si riproduce meglio? E perché?
Si può azzardare una risposta. E cioè che questa tribù in cui i genitori non si interessano dei bambini si trasformerebbe in una in cui i genitori distinguono i bambini.
Ammettiamo che volersi prendere cura dei figli sia un comportamento dettato dai geni e non dalla cultura.
Ammettiamo che ad un certo punto in questa tribù c'è una mutazione genetica che porta una persona a volersi prendere cura dei propri figli e non di bambini a caso. Questi figli avranno un vantaggio rispetto agli altri perché i loro genitori si interessano maggiormente a loro e trasmettono a loro volta questo vantaggio ai loro figli.
I geni che non fanno interessare i genitori dei propri figli quindi scompaiono e restano solo gli altri. Sempre però che le attenzioni dirette dei loro genitori riescano davvero a garantire un trattamento migliore. Il fatto si tradurrebbe in attenzioni = cibo + insegnamenti su come vivere = sopravvivenza.
Questo sarebbe particolarmente vero dove il cibo scarseggia, non come oggi che basta andare al supermercato.
I bambini hanno un periodo in cui non sono autosufficienti ed hanno bisogno di un adulto per sopravvivere. Negargli le attenzioni vuol dire morte.
Ma nella tribù senza genitorialità il cibo viene distribuito con certi criteri e gli insegnamenti vengono impartiti dagli adulti. Ora come fanno i genitori col gene della genitorialità a fuoriuscire da questi canoni? Devono ingaggiare battaglia col resto della tribù?
E qui c’è da dire che non ha importanza il metodo, non è dettato dai geni il metodo usato per aiutare i propri figli, al massimo i geni ti portano a voler aiutare di più i tuoi figli che gli altri. Una volta che un genitore vuole più bene ai suoi figli trova un qualche metodo per aiutarli, anche in modo subdolo e contro la legge volendo, è pur sempre un vantaggio che i geni della genitorialità hanno rispetto a chi si interessa di tutti i bambini indifferentemente. La vita presenta molte occasioni per poter sfruttare questo vantaggio che gli altri (quelli senza la genitorialità) non hanno.
E anche la tribù nel suo complesso ne avrebbe vantaggio nel lungo periodo?
Dawkins dà proprio dei valori alle persone, in base ai quali è vantaggioso indirizzare il proprio investimento di risorse (tempo, cibo, etc.), un figlio vale la metà di se stessi, un nipote un quarto, anche i fratelli o i genitori hanno un certo valore. Un bambino non parente vale 0.
Il punto è che una persona non vive per la sua tribù, ma per diffondere i propri geni (non i geni umani, ma del singolo individuo), in questo senso la selezione non è "di specie" ma individuale.
Il tutto sembrerebbe molto interessante. Non mi hanno mai convinto molto le teorie del "gene egoista" però il tutto ha una sua logica non c’è che dire. Ma il fatto che vi sia una logica non per forza vuol dire che sia tutto vero.

Basi e principi dei due sistemi
Ma anche il sistema sociologico ha dei suoi principi base. Questi si fondano sul fatto che l’essere umano sia fondamentalmente buono e tutto ciò che c’è di cattivo, come la spinta alla violenza per esempio, è dovuto alla necessità di affrontare ostacoli e difficoltà che si frappongono al suo pieno sviluppo e al soddisfacimento delle sue esigenze. Pertanto questa linea teorica assume alla propria base un’idea di essere umano costituito si da pulsioni innate, ma che sono fondamentalmente buone e pacifiche, che però lo predispongono ad affrontare molte contingenze ricorrendo anche alla violenza, ma una violenza però che è risposta alla costrizione e alla repressione della natura pacifica. Questo mentre invece i sistemi naturalistici sostengono che la spinta alla violenza sia molto meno “condizionata” e “spontanea” e possa sorgere anche in assenza di circostanze che facciano particolari pressioni, magari per conservare il proprio status quo.
In effetti la costruzione di società gerarchiche e suddivise in classi, la costituzione di coppie eterosessuali per l’allevamento dei bambini e la suddivisione di ruoli in base al sesso sembrerebbero le caratteristiche fondamentali della società umana basata su un ordine naturale che rispettano quella natura umana sostenuta dal naturalismo. Mentre invece solo l’istinto alla socialità, alla comunicazione, alla condivisione e il bisogno di agire per la comunità ed essere accettati dagli altri, a inseguire il piacere e fuggire il dolore caratterizza il concetto di natura umana concepita dai sociologisti.
Quindi mentre per i primi gli esseri umani tenderebbero per natura a fondare gerarchie competitive, per i secondi invece no. Da qui la diversa concezione del contesto che avrebbe caratterizzato l’epoca di maggiore evoluzione dell’Umanità, ossia la tribù di cacciatori e raccoglitori, epoca durata milioni di anni contro i pochi millenni di storia agricola e industriale. Secondo il naturalismo nelle tribù esistevano già gerarchie competitive, gruppi interni in lotta tra loro e coppie monogamiche. Invece gli altri sostengono che le tribù primitive fossero caratterizzate dall’assenza di competizione interna, seppure vi fosse stata una specie di gerarchia, questa sarebbe stata fondata sul rispetto e l’autorevolezza e non sulla competizione. Inoltre questa impostazione teorica sostiene che le coppie monogamiche siano state un parto della società agricola e che nella tribù primitiva non avevano alcun motivo di esistere. Infatti sembrerebbe che la tribù tipo fosse di tipo matrilineare, secondo alcuni addirittura “matriarcale” e quindi fondata sulla gens matriarcale. I bambini erano educati da tutti i maschi e tutte le femmine della gens e della tribù e non dai genitori naturali i quali anzi non avevano alcun interesse a occuparsi in linea esclusiva dei propri figli, ma preferivano occuparsi, assieme a tutti i membri della gens e della tribù, dei figli di tutta la gens e tutta la tribù. Il fatto che tali tipologie di tribù siano piuttosto minoritari oggi per i naturalisti è dovuto al fatto che si tratterebbe di un sistema poco competitivo da un punto di vista evolutivo, come abbiamo visto sopra, mentre i sociologisti affermano in genere che oggi si sono estinte per motivi di evoluzione sociale, ma in passato costituivano il modello tipo dei popoli tribali.
La coppia monogamica sarebbe quindi sorta con la rivoluzione agraria, quando a seguito dell’appropriazione privata di fondi agricoli da parte di singoli guerrieri, questi avrebbero avuto l’interesse di isolare la propria femmina o le proprie femmine dagli altri maschi, allo scopo di essere sicuri di tramandare il proprio patrimonio ai figli biologici.
In effetti, come già abbiamo avuto modo di vedere, il ragionamento fila, ma non si spiegano però bene i presupposti su cui a un certo punto gli uomini abbiano abbandonato la proprietà comune della terra e delle donne e imbracciato la strada dell’appropriazione privata. Cioè un spiegazione ci sarebbe e cioè che l’aumento della popolazione modifica sempre il rapporto popolazione/risorse e questo cambiamento nel rapporto spinge a cambiare i sistemi di produzione. Ma perché l’ossessione a impossessarsi della terra e del bestiame in linea privata? E perché quella di tramandarla ai propri figli biologici? Devono esservi quindi delle basi naturali che devono aver spinto i nostri antenati a intraprendere un certo cammino.
Infine contro il sociologismo ci sarebbe da dire che le sue teorie spesso fanno capo al materialismo dialettico di ispirazione marxiana (http://it.wikipedia.org/wiki/Materialismo_dialettico). Popper (http://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Popper) affermava che il materialismo dialettico non sarebbe scientifico (http://it.wikipedia.org/wiki/Materialismo_dialettico#Popper:_il_materialismo_dialettico_non_.C3.A8_scientifico) in quanto “si presenta come una teoria capace di spiegare qualsiasi fatto ricada nel suo ambito e quindi di sottrarsi ad ogni possibile ed immaginabile confutazione (o falsificazione nel linguaggio di Popper). Appunto qui sta il vizio del materialismo dialettico: poiché rinuncia al principio di non contraddizione, se un fenomeno non è compatibile con una particolare tesi, vuol dire che ne é l' antitesi e come tale viene accettato insieme con la sua tesi. In tal modo la capacità di distinguere tra affermazioni a sostegno oppure contrarie ad una qualche teoria che poggi sul materialismo dialettico, viene di fatto annullato, rendendone impossibile una qualsiasi giustificazione oppure confutazione.
Pertanto poiché il materialismo dialettico presume di poter spiegare qualsiasi fenomeno, sia naturale sia storico ricada nel suo ambito, esso, poiché non falsificabile, non può essere considerato una vera dottrina scientifica come invece pensavano Marx e Engels.
Popper ebbe a scrivere sull'apparente potere esplicativo del materialismo dialettico marxista:
« Sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano [...]; un marxista non poteva aprire il giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione e soprattutto per quel che non diceva. »
A detta di Popper:
« Il materialismo dialettico è compatibile con i più disparati comportamenti umani, sicché è praticamente impossibile descrivere un qualsiasi comportamento che non possa essere assunto quale verifica della teoria. »
Questa sua infalsificabilità secondo Popper rende il materialismo dialettico essenzialmente non-scientifico.”
Anche tutto questo ragionamento di Popper fila. Ci troviamo insomma di fronte a una teoria che avrebbe sempre ragione e ciò sarebbe dovuto a una sua eccesiva completezza: essa comprende anche la sua negazione. Una sorta di autodifesa perenne che si traduce in una sempre continua conferma della teoria. Insomma nulla può contraddire il materialismo dialettico per il semplice motivo che questo comprende anche ciò che lo nega. Ma questa è davvero una sua mancanza oppure ciò è dovuto al fatto che si tratta di una sorta di teoria del tutto che davvero tutto ricomprende e tutto spiega? E se ciò fosse dovuto al fatto che il materialismo dialettico davvero ha colto l’essenza della realtà e per tale ragione non può essere falsificata? Il problema però non è tanto che gli eventi reali, a detta di Popper, non potrebbero contraddirla, ma anche quelli immaginari in quanto sarebbe impossibile anche immaginare eventi che la negano. Ammettendo che ciò sia vero, sarebbe davvero dovuto a una sua inesattezza intrinseca o forse invece al fatto che essa coglie in pieno e totalmente persino il più intimo meccanismo della mente umana?

Ordine contro utopia
In tutta la storia umana troviamo due cose che sempre hanno fatto gli uomini: creare società in cui non mancavano quei fenomeni definiti “ingiustizie” e sognarne di migliori in cui questi fenomeni non ve ne fossero. In tutta la storia umana le società che si sono succedute hanno avuto peculiarità proprie, ma anche elementi in comune. Il bisogno di ordine per esempio e una certa gerarchia, ma anche lotte per il potere non sono mai mancate seppure hanno preso diverse forme.
Ma in tutta la storia umana non sono neanche mai mancati i sogni di un mondo migliore. E anche questi hanno elementi piuttosto specifici alle varie epoche e altri invece in comune. Specifici sono gli elementi organizzativi e di lavoro. Per esempio in una società agricola prevarrà l’utopia di un mondo in cui ognuno abbia la sua terra fertile da coltivare senza immani fatiche. In una società industriale prevarrà l’utopia di un mondo automatizzato in cui i lavori pesanti sono delegati quasi completamente alle macchine mentre le persone potranno dedicarsi alle attività intellettuali e di alto interesse personale.
In comune ci sono invece alcuni elementi sociali, come per esempio la fratellanza, la pace, l’armonia sociale, l’assenza di povertà e di miseria e di ogni forma di prevaricazione. L’aspetto politico in apparenza muta a seconda diversi tipi di utopie sociali. Troviamo quelle di stampo “monarchico” o fondate su un leader carismatico fino a giungere a quelle più egualitarie con l’assenza di ogni tipo di gerarchia e di capi. In realtà cambia molto la forma ma non la sostanza, perché seppure il leader carismatico non gode di un’investitura formale, anche nelle costruzioni più “anarchicheggianti” non viene esclusa l’esistenza di un buon capo che governa non sulla base di un potere fondato sulla forza ma con la sua saggezza e il cui potere si fonda sulla sua statura morale e la sua autorevolezza. Un potere al servizio del popolo e animato da un grande amore verso questo è non di rado alla base dei “sogni” socio-politici di una gran parte di teorici dell’utopia.
Pertanto risulterebbe che anche l’utopia e l’atto di “utopizzare” facciano parte di quella che i naturalisti chiamano natura umana. Gli uomini da sempre costruiscono società in cui il loro “lato oscuro” non risparmia di farsi vedere, di uscire alla luce, la violenza e la prevaricazione si manifestano in varie salse e varie gradazioni, ma da sempre sognano che queste non ci siano. È la tensione tra l’essere e il dovere o il voler essere, forse due aspetti della natura umana in perenne conflitto tra loro. Forse il principale nemico dell’Uomo e dell’uomo è l’Uomo e l’uomo stesso.
Si potrebbe però ipotizzare che la realtà sociale non priva di nefandezze sia il risultato dello scontro delle istintive e naturali aspirazioni umani con la dura realtà. Una realtà che ricomprende tutti quegli ostacoli di varia natura all’esprimersi pieno e chiaro di queste aspirazioni. Ma siamo certi che questi ostacoli siano tutti esterni? Siamo certi che non vi sia qualcosa di “oscuro” all’interno dell’essere umano che lo ostacola nel realizzare le sue aspirazioni? E qui si suddividono le visioni sociologiche da quelle naturalistiche. Secondo le prime i lati oscuri della natura umana, violenza, prepotenza, prevaricazione, fuoriescono in funzione delle variabili esterne, degli ostacoli esterni, naturali o sociali che siano, come una reazione verso di essi. In assenza di tali ostacoli, nel momento in cui la società dei sogni si realizza sgominando le forze esterne del “male”, questi non avrebbero più motivo di esistere e l’Umanità potrebbe vivere in un mondo privo di nefandezze. La versione naturalistica invece afferma che è nella natura umana che questi istinti fuoriescano e che, anzi, non di rado, invece di essere una vera reazione a dei veri ostacoli esterni, cerchino il pretesto per potersi manifestare e che non di rado tali ostacoli costituiscono più una scusa, o addirittura creati ad hoc e finalizzati alla manifestazione di naturali tendenze umane.
Ed è da questo scontro tra ordine e utopia che i naturalisti invitano alla prudenza nell’inseguire utopie mentre gli utopisti invitano alla ribellione verso pretesi ordini naturali.
Altra caratteristica sempre presente nella storia è la “sublimazione e oggettivazione della causa di parte”. Da sempre gli esseri umani si sono stretti in un dato gruppo in lotta contro un nemico comune. E questa lotta è sempre stata spinta da una causa che andasse oltre i meri interessi soggettivi di tale gruppo. Troppo blando e meschino sembrerebbe dire che si lotta per i propri legittimi interessi, quindi si elevano tali interessi al rango di bene sommo, di verità assoluta di fine ultimo del mondo. E così la lotta diventa quella del bene contro il male. Ovviamente ciò è anche dovuto dal fatto che i nostri punti di vista sembrano ai nostri occhi come oggettivi e assoluti. Questo avviene a un livello di raziocinio non molto elevato, mentre con un ragionamento più impegnativo si riesce a comprendere che siamo solo una componente del mondo e che i nostri fini non sono i fini del mondo, neanche del solo mondo umano. Il raziocinio può intervenire per integrare e correggere i nostri livelli di natura più istintivi. E una buona educazione può infondere tali meccanismi “correttivi”, spesso molto utili alla vita sociale, nell’individuo in maniera molto ben radicata. Quindi non sempre a quanto pare l’educazione volta a correggere certi istinti è un fatto “repressivo”, spesso è invece un vero e proprio atto formativo.

Rivoluzione selettive e società darwiniane
Un’ipotesi alternativa alle due sopra esposte può essere quella che vede l’evoluzione genetica più rapida di quanto non la vedano entrambe. Alcune ricerche mostrerebbero che il nostro patrimonio genetico negli ultimi diecimila anni sia in effetti mutato di parecchio per effetto della “civiltà”. Pare addirittura fino a un 20%. Nel suo libro “L’evoluzione della cultura” (http://www.libreriauniversitaria.it/evoluzione-cultura-proposte-concrete-studi/libro/9788875780012), Luigi Cavalli Sforza (http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Luca_Cavalli-Sforza), nota che i geni per la produzione dell’enzima per la digestione del latte si siano modificati dopo che divenne usanza, a seguito della nascita della pastorizia e dell’allevamento di bestiame, bere latte anche in età adulta. Così se prima con la fine dell’allattamento gli individui finivano di produrre tali enzimi, ora in moltissimi paesi, soprattutto occidentali, in cui il latte si usa berlo anche in età adulta, la maggior parte degli individui possiede geni che permettono di produrre tali enzimi anche in età adulta.
La civiltà sembra avere influito parecchio sull’evoluzione genetica e che evoluzione sociale e biologica siano tra loro più interconnesse di quanto sembri. Pertanto sembra che la società faccia da ambiente per ulteriori selezioni genetiche, selezionando gli individui più adatti a vivere in un dato contesto sociale. Così il feudalesimo poteva selezionare i soggetti più coraggiosi, più fedeli e più eroici, mentre il capitalismo potrebbe invece favorire i soggetti più competitivi, più furbi, più scaltri.
Non solo, ma le stesse rivoluzioni, gli stessi momenti di passaggio da una società all’altra potrebbero costituire una selezione rapida di individui. L’eccidio che segue la rivoluzione, ma anche il cambio di assetto sociale, porterebbero a un mutamento nella marcia selettiva. Ovviamente se vincono le forze rinnovative, altrimenti tale cambiamento non ha luogo e permane il vecchio assetto. Del resto le selezioni quando sono violente sono molto rapide in quanto molti individui vengono scartati subito, spesso con la morte.
Questa visione può portare una nuova ottica nell’ambito dei rapporti tra genetica e società, ma non tiene però conto della controversa natura che c’è nello stesso individuo, il quale può essere predisposto a spinte tra loro contrarie e lo sviluppo di alcune a scapito di altre dipende dall’ambiente. Lo stesso individuo, insomma può essere adattabile a vivere in diversi contesti, essere malleabile a seconda dell’apprendimento.
La visione sociologica pone come ovvio limite l’aumento di rigidità che sovviene con l’età nel soggetto. Ciò che si apprende nei primi anni di vita forma gran parte della nostra personalità, poi pian piano il tutto diventa sempre più informativo e meno formativo. Per cambiare modo di essere in età adulta c’è bisogno di uno sforzo molto più grande che in età dello sviluppo. Ma anche questo è posto in dubbio da molte ricerche che suggeriscono che anche in età adulta non sia poi tanto difficile plasmare il cervello. Probabilmente entrambe le visioni sopra esposte, combinate, potrebbero spiegare perché la natura umana è tanto complessa, controversa e malleabile: una vita sociale complessa e mutevole non ha tanto selezionato individui adatti a un dato contesto quanto soggetti elastici e adattabili a vari contesti dinamici. Insomma individui quanto più complessi sia possibile. È una “formula” che spiega come l’uomo si adatti al contesto naturale e sociale ma non come egli adatti il contesto a se stesso. Ma forse la realtà è più vasta e sta nel fatto che l’uomo è un sistema complesso atto a creare relazioni di adattamento reciproco tra sé e il contesto in maniera quanto più rapida sia possibile. Laddove non riesce ad adeguare l’ambiente adegua se stesso all’ambiente. Si tratta paradossalmente di un meccanismo antico e non solo umano, in quanto tutti gli altri viventi devono adeguarsi all’ambiente, ciò che c’è di nuovo nell’Uomo è solo la sua capacità di adeguare l’ambiente a sé. Eppure, sempre paradossalmente, questa sua capacità, invece di renderlo più “rigido” pare che si accompagni a una sua estrema elasticità. Ma questo però è un discorso, seppure interessante, che non è pertinente in questa sede.

L’inconscio e la trasmissione culturale
Con le moderne analisi del cervello, tipo brain imaging e roba varia, si è attestato che i processi coscienti fanno capo più o meno ai neuroni dello strato esterno della corteccia cerebrale, mentre i processi inconsci allo strato più interno.
E si è visto che il processo decisionale si attiva negli strati più interni verso quelli esterni. Quindi noi non prendiamo delle decisioni coscienti, ma è l'inconscio che informa la coscienza delle decisioni prese. E' ovvio che l'influenza tra "strato" cosciente e quello incosciente è reciproca e il fatto che noi pensiamo molto è dovuto alla struttura della corteccia: i neuroni dei processi coscienti sono molto più interconnessi tra loro che non con quelli dei processi inconsci.Inoltre l'inconscio è una sorta di "raccordo" tra mondo esterno e pulsioni interiori profonde. Queste ultime lanciano degli input dall'interno mentre invece attraverso la coscienza l'inconscio riceve input dall'esterno. Quindi riceve diverse "spinte" che lo forgiano continuamente, ma ovviamente la sua elasticità tende a calare con l'età, in particolare se nell'infanzia è molto malleabile, durante l'età adulta diventa non rigido ma di certo molto più stabile.
La gran parte delle pulsioni che caratterizza la nostra personalità e il nostro modo di essere e di fare ha sede nell’inconscio. È qui che risiede il nucleo del nostro essere psichico, nelle profondità del sistema limbico e neurocorticale. E ciò rende difficile poter identificare cosa provenga da input “interni”, che si potrebbero definire piuttosto “naturali” e cosa da input esterni sociali. A complicare il tutto vi è il fatto che la struttura inconscia si forma grosso modo nei primi anni di vita. Come si fa, in uno strato così profondo e inconsapevole della nostra mente che si forma in un’età così precoce, a identificare ciò che è frutto dei geni e ciò che invece ha preso forma ad opera dell’apprendimento? E se invece la formazione delle nostre strutture mentali e delle nostre pulsioni, anche più profonde, avesse una duplice natura, sarebbe frutto di un’interazione per sua natura indistinguibile?
Ciò che riguarda la nostra struttura psicofisica, che sia ciò che ha preso forma per input sociale o per un processo di sviluppo dovuto alla genetica, è un problema non statico ma di processo. Il nostro essere è un continuo processo che prende forma in modo veloce nei primi anni e poi via via sempre più lentamente e superficialmente interagendo continuamente con l’ambiente. Pertanto, se è vero che non tutto ciò che è strutturale è per forza naturale ma può anche essere dovuto a un adattamento ambientale, è anche vero che non tutto ciò che prima non c’era e poi viene ad essere vuol dire che sia dovuto ad adattamento ambientale, potrebbe anche essere frutto di un processo che avrebbe avuto luogo in qualsiasi contesto o quasi. Un problema di “importazione” insomma: una data pulsione è stata importata dall’esterno o invece è stata attivata da un processo interno? Di certo la predisposizione c’è, per tutto ciò che gli esseri umani sono e fanno c’è una predisposizione, altrimenti non potrebbero esserlo e farlo. Un po’ una scoperta dell’acqua calda questa ma consentitemela.
Per poter sapere cosa è dovuto a input esterni e cosa invece è dovuto a un processo di evoluzione naturale e intrinseco, bisognerebbe studiare o un grosso numero di casi piuttosto diversi, distanti e senza alcun rapporto tra loro e vedere cosa hanno in comune, oppure soggetti molto simili geneticamente ma che sono cresciuti in contesti molto diversi. Così si può sapere cosa è che sorge in qualsiasi contesto, se una data pulsione ci sarebbe anche in condizioni diverse oppure non ci sarebbe o in suo luogo ce ne sarebbe un’altra. Questo almeno fino a un ulteriore sviluppo degli studi di genetica.
Il primo caso è quello di studiare varie persone di svariatissimi contesti, razze, popoli e culture. Le caratteristiche che presentano in comune tra loro possono avere un’alta probabilità di essere di origine naturale. Ma vi può comunque essere anche il sospetto che vi sia stata in un certo modo una diffusione culturale di un dato carattere, sospetto non di facile verifica.
L’altro caso invece rappresenta quello dei gemelli identici cresciuti in ambienti diversi. Hanno lo stesso patrimonio genetico ma sono allevati in ambienti completamente diversi tra loro. Tutto ciò che non hanno in comune può essere di derivazione esterna, mentre tutto ciò che hanno in comune può essere di origine intrinseca. In realtà i casi sono molto pochi, non sufficienti per poter costituire una vera e propria verifica sperimentale. Comunque parrebbe che i pochi casi avvenuti avvalorerebbero di parecchio le tesi sociali e meno quelle naturali.

Identitarismo contro paritarismo
Anni fa in un corso di formazione a cui partecipai ebbi il piacere di discutere con un mio amico e collega riguardo un libro che lui stava leggendo. Il libro si intitolava “Comunitari e liberal, lo scontro del prossimo secolo?” (eravamo nel 2000). Detto in modo semplicistico all’ennesima potenza, il libro trattava di due atteggiamenti, due modi di rapportarsi col mondo, uno, quello comunitario, che prende come riferimento le caratteristiche specifiche della propria comunità (o categoria se vogliamo metterla in senso più generico) mentre l’altro, quello liberal, proporrebbe un modello universale considerato come il non plus ultra del modo di essere uomini ed essere liberi. Si tratterebbe però più che di un vero e proprio modello, di un meta-modello. Quello liberal è solo una serie di principi che lascia la libertà a ognuno di scegliere il proprio modo di essere e di rapportarsi col mondo indipendentemente dalla propria naturale categoria di appartenenza. Questo mentre invece il modello comunitario suggerirebbe di rispettare e conformarsi al modo di essere della categoria a cui l’individuo appartiene.
Cosa c’entra col discorso tra natura e cultura? C’entra perché non di rado i “comunitari”, per oggettivare e sublimare le proprie argomentazioni, fanno ricorso alla visione naturalista dell’essere umano, mentre invece i liberal intendono svincolare l’essere umano dall’ordine naturale e affidarlo alla propria libera scelta dettata più dal contesto sociale. Per i “comunitari” (e non solo: http://xoomer.alice.it/giubizza/pezzo01.htm) questa libertà può però essere una nuova trappola che da una parte renderebbe gli individui dei meri numeri in balìa delle mode della società consumistica e dall’altra li abbandonerebbe a se stessi senza una guida e senza una vera libertà.
Ma qual è l’origine di questi due atteggiamenti? Nel medioevo non esisteva una distinzione tra naturale e divino. Ciò che era naturale era considerato opera divina e ciò che era divino si esprimeva in maniera visibile nella natura. Solo con l’avvento della scienza moderna, per l’appunto definita scienza della natura, si iniziò a concepire la natura come un sistema a sé stante e concettualmente indipendente dall’ordine divino. Il tutto aveva una funzione rivoluzionaria: porre una visione del mondo alternativa e più avanzata, più profonda, più raffinata, rispetto a quella tradizionale.
Col tempo però, una volta impostosi il sistema naturalistico, questo assunse finalità conservatrici. Al posto dell’ordine divino si poneva come sacro e inviolabile l’ordine naturale delle cose. Gli individui occupavano un certo posto, avevano un certo atteggiamento, erano sottoposti a determinate cose, non per volontà divina, ma per uno stato di natura del mondo. Al concetto di anima e destino tracciato da dio si sostituì quello di eredità biologica e natura umana. Ma in sostanza tutto tornò come prima.
Nacque pertanto l’esigenza di stravolgere ulteriormente le carte. Così molte correnti di pensiero iniziarono a concepire l’Uomo non più come prodotto della natura, ma della società. L’Uomo è ciò che viene a essere in base ai condizionamenti che la società gli incute e gli impone e non ciò che è. Perché sia ciò che è bisogna fare in modo che egli sia consapevole di tali condizionamenti o che questi si riducano il più possibile oppure, per la gran parte, che siano input corretti e non alienanti. Con gli input sociali adeguati si può formare un tipo di Umanità più avanzata e civile. Questa visione ha poi portato a quella moralistica da una parte (che per la precisione affonda le radici anche in varie dottrine religiose) la quale affida all’educazione individuale la soluzione alle problematiche sociali, migliorando gli individui si milgiorala società in quanto questa è la somma degli individui che la compongono. Dall’altra parte invece vi è quella di tipo collettivistico rivoluzionario o riformistico che si dà a una programmazione di rinnovamento socio-economico di tipo rivoluzionario, ma anche riformistico. Secondo tale impostazione la società è qualcosa di più del semplice insieme dei soggetti che ne fanno parte, essa ricomprende anche i rapporti che questi hanno tra loro e con tutto l’ambiente socio-economico e culturale.
Fin qui abbiamo sintetizzato per sommi capi e in maniera molto semplicistica (esageratamente direi…) l’evoluzione dei due sistemi di pensiero socio-umanitario. A fianco a queste e spesso intrecciate ad esse vi sono i due atteggiamenti, comunitari e liberal, di cui ho detto sopra. I due termini indicano il rapporto tra la comunità etnica di appartenenza e gli individui che ne fanno parte, io invece preferisco allargare il discorso alla categoria di appartenenza in generale e non limitarmi solo al contesto etnico. Utilizzerò pertanto i termini “identitarismo” ed “egualitarismo” interessandomi di come questi due atteggiamenti hanno interpretato il processo di liberazione ed emancipazione di categorie considerate sottomesse in rapporto alle categorie considerate dominanti. La questione della sottomissione reale o presunta è alquanto controversa e la lascio stare affidandomi al banale senso comune.
Dunque, l’identitarismo starebbe ad indicare l’esaltazione e la conservazione delle specificità della propria categoria di appartenenza, mentre l’egualitarismo invece rappresenta la rivendicazione di uguaglianza tra le categorie sottomesse, o considerate sottomesse dal senso comune, le quali troverebbero la propria via di liberazione e di emancipazione attraverso la propria parificazione con le categorie dominanti o considerate dominanti dal senso comune. Insomma mentre l’eugualitarismo vede l’emancipazione nell’essere o divenire uguali agli attuali o vecchi dominatori, l’identitarismo invece vede l’emancipazione come la libertà di esprimere la propria identità, nel liberare il modo di essere a seconda della propria categoria di appartenenza.
L’egualitarismo era per lo più predominante fino alla caduta dell’Unione Sovietica. Il crollo del gigante sovietico e il successivo periodo che ha visto un certo fallimento delle politiche economiche volte a imitare e seguire i diktat dei paesi occidentali, la delusione che l’imitazione dei modelli di vita occidentali ha comportato nei paesi dell’est europeo, nel terzo mondo e nel mondo intero, anche nello stesso occidente, tutto questo ha comportato la crisi del mito dell’industrialismo “buono”, del paradigma dei modelli di civiltà e di avanguardia e roba del genere. Così se prima i paesi coloniali dovevano imitare il modello di sviluppo dei paesi più avanzati, se le donne dovevano essere come gli uomini, i neri come i bianchi, gli “schiavi” come i padroni, da circa una ventina di anni tutto è mutato. Se prima si rivendicava il diritto a essere uguali, a ripercorrere le stesse strade e gli stessi modi di essere, ora si è scoperto il diritto a essere diversi, a ripercorrere proprie strade e propri modi di essere. Così i popoli coloniali non devono essere come i paesi avanzati ma a modo proprio, le donne non devono essere come gli uomini, i bianchi non come i neri, gli “schiavi” non come i padroni e così via.
E datosi che i vecchi o attuali dominatori o “dominatori” sono ora i cattivi di turno e che c’è sempre la tendenza a sublimare il tutto, ecco che il modo di essere dei dominati o dei “dominati” diviene la bontà per eccellenza. Così la cultura e la visione del mondo dei popolo coloniali sono più aperte, rispettose e civili di quelle dei paesi avanzati, la psiche e la sessualità femminile sono più “compless(at)e” e “complete” di quelle maschili, le qualità psicofisiche dei neri sono migliori di quelle dei bianchi, la tempra degli “schiavi” è superiore a quella dei padroni e via cantando. E chi osa contraddire tali “verità” allora è razzista, maschilista, imperialista, misogino, schiavista etc. E come se non bastasse l’esaltare una parte bisogna anche denigrare l’altra. La denigrazione nasce da diverse “teorie” tra cui quella più o meno vera o più o meno presunta che afferma che il rapporto di dominio impoverisce sotto molti aspetti il dominatore mentre arricchisce il dominato. Nel rapporto di domino insomma, mentre il dominato si vedrebbe costretto ad affrontare la dura realtà e a sviluppare strategie di gestione della propria vita più complesse e ricche, il dominatore si curerebbe solo di conservare il proprio dominio e ricavarne dei vantaggi. Così si “spiegherebbe” la grettezza e la rapacità vera o presunta dei paesi avanzati, del genere maschile, dei bianchi, dei padroni e così via. Modi di essere, insomma, non più da imitare ma da cui allontanarsi. Anzi sono i vecchi e nuovi veri o presunti dominatori a dover essere “rieducati”…
Grosso modo l’atteggiamento identitarista fa uso della visione naturalista, questo ovviamente quando può permetterselo, in quanto è un po’ difficile sostenere che un operaio o un bracciante agricolo sia geneticamente diverso dal suo padrone. Mentre invece l’atteggiamento egualitario si rifà alla visione sociale sostenendo che le differenze sono in gran parte prodotto della sottomissione e funzionali a queste, quando tra le categorie in questione c’è stato da sempre un rapporto, o invece costituiscono segno di arretratezza da superare, quando le categorie in questione non sono sempre state in contatto tra loro e il rapporto vero o presunto di dominazione è piuttosto recente. In effetti nel primo caso costituisce un paradosso voler conservare tutte le caratteristiche della categoria considerata sottomessa e liberata, sarebbe come un galeotto che rivendica la sua divisa da carcerato anche quando è stato liberato.
C’è anche da dire che tale correlazione non è che sia poi tanto necessaria, e in effetti non sempre esiste, in quanto una certa caratteristica può voler essere conservata o superata indipendentemente dal fatto che sia naturale o sociale. Ma c’è comunque una vaga tendenza a identificare col naturale tutto ciò che è immodificabile e per sociale tutto ciò che è da modificare, e così il ricorso a una visione o a un’altra rafforza le tesi a sostegno dell’uno o dell’altro atteggiamento.
I punti deboli di tali impostazioni consistono secondo me in primo luogo nel prendere come punto di riferimento costante l’altro, il modo di essere che pertiene l’altra categoria e non se stessi o le proprie aspirazioni, come si è in realtà o in potenza. Il ragionamento, che sia “io sono uguale” o “io sono diverso”, che sia “io devo essere uguale” o “io devo essere diverso”, si riferisce sempre all’altro e mai in un modo di essere secondo le proprie esigenze, le proprie caratteristiche, le proprie aspirazioni. E ciò ricomprende anche una certa obbligatorietà in quanto il concetto è che bisogna essere in un dato modo, riferito all’altro.
Altro punto debole è la netta catalogazione di tutto un insieme di variabili che non per forza devono farsi ricomprendere in gruppi monolitici. Non è detto che una persona sia di tipo A o di tipo B, una persona è se stessa e basta. È ovvio che molte cose prendono per forza spunto da input esterni, ma ognuno deve scegliere “usi” e “costumi” confacenti a se stesso e non farsi imporre conformazioni di qualsiasi tipo. È ovvio altresì che questa autoreferenzialità non deve trasformarsi in una chiusura a riccio, bisogna essere aperti anche verso gli altri, verso le proprie esigenze, ma è sempre il proprio “sé” che deve in qualche modo “decidere” come esprimersi e formarsi.
Forse questo mio ragionamento mi farà etichettare da qualcuno come un “liberal”. Fa niente, non mi offenderò per questo.

Natura contro natura
Faremo quindi bene a chiederci che, se è vero che magari abbiamo una struttura psichica ben definita dalla nascita, perché desideriamo comunque mutarla? Perché desideriamo essere diversi da quel che siamo? Perché sogniamo una natura diversa dalla nostra? Perché desideriamo essere privi di quegli istinti che non a caso definiamo “negativi” come la violenza, la voglia di prevaricazione, la volontà di potenza (intesa in senso negativo)?
Una strana natura quella umana, una natura che nega se stessa, che continuamente vuole mutarsi e rinnovarsi. Una natura che da una parte si esprime in un modo ma che però desidera non essere in tal modo. Che la maggior parte dei nostri problemi derivi da questa nostra duplice natura? Una natura composta da istinti che si esprimono in maniera che non piace ad altre “parti” della nostra stessa natura. Faremo quindi bene a chiederci se la nostra non sia una duplice natura, che il sogno e l’utopia non facciano parte di questa nostra struttura e pertanto anche nell’ottica del naturalismo non vada respinta e soppressa.
La nostra natura è quindi una corda tesa tra conservazione e mutamento, tra reazione istintiva agli eventi e pianificazione per il miglioramento della situazione globale, tra l’aridezza della realtà e la dolcezza del sogno, tra una posizione di partenza e un traguardo da raggiungere.
Chi ha detto che la ragione non è un istinto? Che l’apprendimento non fa parte del nostro istinto? Che le predisposizioni innate non siano modellabili con facilità? Magari esistono predisposizioni più forti e meno forti, di diversa gradazione. Magari la razionalità è quell’istinto, quella parte di nostra natura che coordina, corregge e integra una buona parte del tutto.
E per quanto riguarda la “definizione” dei nostri istinti, del loro esprimersi in maniera definita in quanto così strutturati oppure in quanto definiti dall’ambiente circostante? Qui bisogna considerare che noi siamo una specie con una vita sociale complessa e con una grossa massa cerebrale preposta all'apprendimento. Quindi fino a che punto la nostra specie avrebbe convenienza ad avere individui con spinte innate e fino a che punto invece lasciar fare all'apprendimento.
Voglio dire: un orso solitario ha bisogno di spinte innate perché non ha una vita sociale che gli insegni i comportamenti idonei a garantire la propria sopravvivenza e riproduzione. Così anche molti tipi di insetti, come le api e le formiche, in quanto non hanno una grossa massa cerebrale e inoltre fanno sempre le stesse cose da milioni di anni.
Ma gli esseri umani, con una vita sociale dinamica e varia, con una grossa massa cerebrale, fino a che punto hanno la convenienza biologica ad avere un numero eccessivo di istinti innati e definiti in modo preciso e fino a che punto invece hanno la convenienza biologica a lasciar fare alla società? In fondo i comportamenti finalizzati alla sopravvivenza e alla riproduzione possono essere anche facilmente acquisiti e così sarebbero più "elastici" e più adattabili ai vari contesti.
Ma forse è anche necessario avere un certo bagaglio di input innati datosi che non di rado conduciamo vita solitaria e non tutto può esserci tramandato dalla società. Ma nessuno ci vieta di pensare che tali input possano essere molto mutabili. Se si benda un occhio a un gatto l’area visiva della sua corteccia cerebrale non formerà le striature in cui si incrociano le aree di competenza dei due occhi. Ma queste striature si formano però se si bendano entrambi gli occhi. Sono parte di un programma innato che si forma senza input ambientali, ma che si modifica con questi con relativa semplicità.
Noi stessi entriamo spesso in conflitto con le nostre esigenze, saltiamo i pasti, ci sottoponiamo a ferree discipline pur d raggiungere dei fini senza i quali la nostra esistenza non avrebbe senso. Si, è vero che in gran parte siamo costretti a fare tutto questo per necessità, come per esempio per motivi di lavoro, di cui magari ne faremo volentieri a meno, ma non di rado siamo costretti a reprimere alcuni aspetti della nostra natura per esaltarne altri. E l’educazione ci spinge a fare altrettanto. Pare proprio che la natura non sia un sistema lineare e coerente, ma composta da varie parti spesso in lotta tra loro. E il processo utopistico è una di questa parti come quella attinente l’ordine e gli istinti più basilari. Forse tra i più importanti e da non reprimere né da prendere sotto gamba. La stessa religione costituisce un’utopia, seppure di stampo metafisico e non sociale e immanente alla storia.
Quindi non è tanto l’utopia in sé ma come viene perseguita a essere dannosa, quando pochi oligarchi vogliono imporla ad ogni costo e quando questa smarrisce la sua funzione di guida ideale e di luce in fondo al tunnel. Bisogna si gestire il dato, ma in questo dato va ricompreso anche il cambiamento, un cambiamento che non va né frenato, né imposto e né subito passivamente, ma guidato verso il soddisfacimento massimo dei bisogni umani.
L’utopia deve quindi essere un sogno che si propone e non si impone, così come la realtà deve essere una base che non debella il sogno. Voler imporre il sogno, trasformarlo in un mito che distorce la realtà anziché colorirla, che forza lo stato di cose invece di plasmarlo, fa in modo che questo sogno venga poi spazzato via. E quando l’uomo non ha più sogni, non ha più miti che gli danno senso, perde la parte considerata comunemente più nobile e più pura di sé. Ma è soprattutto necessario che ogni utopia sia la NOSTRA utopia.
Modellare la propria natura può essere cosa giusta e buona se non fatta con imposizione ma per una scelta piuttosto libera. Bisogna però tenere conto che fare dei passi verso il mito comporta comunque il rischio di errori, e questi devono essere a loro volta un insegnamento e non uno scoraggiamento per il nostro cammino.
Partorire utopie, coltivarle, muoversi verso di esse può costituire uno dei bisogni umani più basilari. Sia a livello individuale che collettivo una certa opzione, una data strada da intraprendere dovrebbe essere scartata solo se ne è verificata la sua nocività, ma ci si dovrebbe anche muovere per realizzarla solo dopo averne attestato la non nocività, o la sua necessità o vantaggiosità e il fatto che gli svantaggi che può comportare non siano troppo radicali per l’essere umano. Un duplice controllo, quindi, a livello sia ideale che in corso di realizzazione, ma che ad ogni modo non escluderà mai del tutto la possibilità di errore per cui bisogna sempre essere preparati.
È giusto che un certo prudente rispetto verso la nostra natura non si trasformi in pigrizia verso il cambiamento, ma è anche giusto che il sogno, l’utopia, non si trasformi in un incubo.

Commenti

  1. Non esageriamo, sono solo osservazioni personali, tra l'altro molto dilungate.
    Diciamo che è un tipico testo speculativo.

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  2. A me sembra un testo scientifico a tutti gli effetti!

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  3. Ottimo post e bellissimo blog che seguo sempre con interessa.
    Bravo!
    Ciao

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  4. Lo scritto è un po' lungo e questo non favorisce certo la lettura. Però è scritto molto bene e interessante. Magari vi fossero più persone che avessero la tua capacità di riflessione.
    ciao

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  5. Beh ragazzi, grazie mille per i vostri commenti, ma credo siano un tantino esagerati, in fondo sono solo miei pensierini e riflessioni.

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  6. Complimenti, questo testo è davvero tra i più completi che abbia trovato dopo diverse ricerche e che affronti in una chiave così completa questo argomento.

    ps grazie, ne trarrò spunto per la mia tesina della matrità che appunto s'intitola: L'uomo tra natura e cultura

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